Cosa sia l’islandese
per me, è cosa che non so spiegare.
Non è lallazione, non è la lingua della madre e dei ricordi d’infanzia,
non è mai stata la lingua
che mi traghettava nel sonno; non è quella
genetica
di una storia stratificata che porto incisa dentro, né quella
adolescenziale del pop
e delle canzoni; e mi mancano le parole della seduzione perché in
islandese
non sono mai stata veramente innamorata.
Eppure, eppure – questa lingua
è un pugnale,
ogni volta, che arriva dritto al cuore e fa un po’ male perché non
sarà mai
completamente mia. È lingua di una sfera altra, arcana; è lingua di una
natura
incommensurabile, dell’energia primordiale, delle falde del muschio e
delle pieghe del sistema nominale, che flette le vocali radicali in
mille sfumature diverse
entro la stessa sfera semantica; è lingua rozza e biascicata dei
disgraziati per strada,
lingua sbrogliata o impastata dell’alcol; lingua elegante e distinta
della classe colta,
dell’inchiostro di galla sulla pergamena, di chi era presente al
rimpatrio dei manoscritti;
è cantilena atona delle previsioni meteo alla radio, lingua elitaria,
lingua crudele
dell’esclusione, lingua della sofferenza e del riscatto che viene,
sempre, alla fine.
Reykjavík: ogni volta
penso che tutto quello che mi attira ancora così tanto
sia solo nostalgia,
per un periodo intensissimo e pieno della mia vita,
per gli amori trovati e perduti, per un dottorato
buttato via, per gli studi
in cui
credevo così tanto, per me com’ero. Ogni volta che vado credo di
tornare a
cercare
quello che non c’è più, a consumarmi per le strade per riassaporare volti,
nomi,
luoghi,
quella che ero. Ma ogni volta mi sbaglio, perché Reykjavík mi
smentisce sempre
aprendomi porte
e opportunità nuove, esperienze ed emozioni diverse – è un percorso di
analisi,
una rielaborazione di fortissimo impatto emotivo, una vita parallela, una
parte della mia vita
di cui non so fare a meno. Una città un po’ disperata, ciclotimica, che ce
la mette tutta
per adeguarsi,
una città capace a volte anche di qualche slancio.
Una città che mi assomiglia.
C’è chi da un breve
soggiorno islandese ha prodotto dei libri, come
W.H. Auden,
Simon Armitage,
Valeria Viganò
e molti altri.
Solo io, come mi si
rimprovera a casa, non sono riuscita a concludere nulla malgrado
tutti quegli anni vissuti lassù. Il fatto è che
se non ho problemi a
trovare parole per cose scritte da altri, quando si tratta
di tirarne fuori di mie entro davvero in paranoia.
Le mie parole per me
sono una fatica immensa.